Altre testimonianze: preveggenza?


Anna Gloria Malfatto

Santambrogio di Valpolicella (VR)

Da piccola passavo le mie giornate a casa della nonna che aveva molte galline e quindi mi cucinava sempre uova. Ma ad un certo punto stavo male e non mangiavo più. Così, interpellato don Rodolfo, lui disse di farmi mangiare i cioccolatini “Nestrovit” e, grazie a questo consiglio, io guarì. Don Rodolfo aveva anche doti di preveggenza: lo zio Serafino era andato in guerra e i miei parenti non lo vedevano tornare. Allarmati, andarono da don Rodolfo a chiedergli notizie e lui rispose: “Lo zio torna tardi”. Così fu. Tornò molto tempo dopo e tornò sano e salvo. Inoltre ricordo che spesso, quando era giovane, giocava con i bambini dell’oratorio che erano soliti nascondergli le cose: lui sapeva sempre dove si trovavano gli oggetti, anche se nascosti dentro a foglie di verza o nei posti più disparati. La mia famiglia gli era molto legata, tanto che quando passava da Verona, veniva a trovarci e si intratteneva cordialmente a casa nostra.


Franco Bruno

Porto Mantovano (MN)

Sono profondamente convinto che don Rodolfo sia un santo e meriti di essere approfondita la sua figura carismatica. Ho appreso sue notizie tramite la mia compianta nonna Orsola. Lei si recò più volte a Pellaloco (forse in bicicletta) per avere consigli in ambito familiare. Don Rodolfo sapeva sempre, senza che lei parlasse, cosa le era successo in passato e cosa le sarebbe successo in futuro. Mia nonna diceva che era il “Padre Pio” del mantovano. Una volta l’aveva interpellato perché avevano proposto al nonno Leonardo di gestire una forneria a Viadana, non troppo vicina a casa. Don Rodolfo disse: “Orsola, la troverai la tua forneria. Non avere fretta”. Così fu perché successivamente ne trovarono una a Marmirolo, molto più vicina a Goito, dove abitavano. Un’altra volta, invece, la nonna si recò da lui per la situazione difficile che stava vivendo la zia Vanda, lasciata poco prima dal marito. Don Rodolfo, in quell’occasione disse che era meglio che avesse perso quell’uomo; disse anche: “Quell’uomo non tornerà più” e così fu. Avevo anche un amico, Romano Maioli di Marmirolo, che spesso si recava da don Rodolfo: non andava bene a scuola ai tempi del quarto o quinto anno di ragioneria e così don Rodolfo gli dava delle dritte sugli argomenti su cui l’avrebbero interrogato. Sono molto devoto a don Rodolfo: lo sento molto vicino e spesso ci parlo, sperando che un giorno mi venga a trovare in sogno.


Rosa Tosoni

Roverbella (MN)

Conosco le virtù di don Rodolfo attraverso un racconto di mia mia mamma, Elsa Marchini. Un giorno infatti mi raccontò che mia nonna Zeffira Lodi Rizzini aveva avuto una crisi di nervi e, per chiedere aiuto, si era recata da don Rodolfo in bicicletta da Buscoldo. Gli aveva portato un indumento della nonna da benedire. Don Rodolfo le disse: “Vedrai che starà bene e quando arriverai a casa ti chiederà un bicchiere d’acqua”. Così fu. Al rientro, la nonna stava bene e chiese, per prima cosa, a mia madre un bicchiere d’acqua. Questo racconto rimase impresso nella mia mente.


Luciano Cornolò

Salcedo (VI)

Nel 1963 mio padre Antonio Cornolò ha scoperto di avere un tumore alla gola che lo ha fatto rimanere un anno in ospedale. Noi figli siamo andati a chiedere la grazia per la guarigione a Pellaloco e don Rodolfo ci ha detto: “Papà non parlerà, ma porterà sempre a casa la pagnotta”. È infatti vissuto con la tracheotomia aperta fino al

1979. Mia madre Lucia (detta Cinda) è mancata invece nel 1982, ma prima ha visto realizzato il suo desiderio: che si sposassero tutti e 5 i suoi figli. L’ultimo a sposarsi sono stato io con mia moglie Grazia Casarotto. Anche mia sorella Claudia Cornolò ha ricevuto una grazia attribuibile a don Rodolfo. Le era stata riscontrata una massa di 7 cm che inizialmente sembrava di origine tumorale, ma dopo aver pregato molto don Rodolfo, le è stato detto che non era nulla e che erano dei semplici diverticoli infiammati. Un altro episodio arrivato al mio orecchio è stato quello di un sagrestano che aveva una scala traballante e ha sentito la voce di don Rodolfo (già morto da tempo) che diceva: “Metti a posto la scala”. Sono rimasto molto legato alla figura di don Rodolfo e ho avuto la fortuna di ricevere e di conservare (dopo la sua morte) una tunica a lui appartenuta e un crocifisso che spesso teneva in mano.


Stefano e Paolo

Trevenzuolo (VR)

Avevano diagnosticato a un nostro parente un tumore alle ascelle nel 1929. Era stato prima all’Ospedale della Scala di Imola; successivamente a Padova al Centro Ricerche Tumori, seguito da una equipe di dodici medici. Lì gli dissero di aver riscontrato due ghiandole maligne, ma lui, rifiutandosi di credervi, si recò da don Rodolfo che gli disse: “Tu non hai niente”. I medici, effettivamente, dopo altri accertamenti, lo richiamarono per dirgli che non aveva niente.


Enzo Cartapati

Goito (MN)

Tutto cominciò sul finire del 1950: si avvicinava il mio primo compleanno, il 29 dicembre. Sono nato infatti il 29 dicembre del 1949 nella “Corte Segrada di Goito”. Mia mamma Rina (all’anagrafe il nome ufficiale risulta essere Rosa perché mio nonno Giacomo, arrivato all’ufficio, dopo cinque chilometri fatti tutti a piedi, non si ricordava più che avevano deciso di darle il nome di Rina e non Rosa) mi partorì in casa come si usava allora. Nella casa di corte Segrada vi era una sola stanza riscaldata dal camino: la cucina. Tutte le altre, compresa la camera dove dormivo con i miei, erano fredde, ed io mi buscai due broncopolmoniti solo in quel primo anno di vita.

Qualche giorno prima di Natale fu zia Noemi, una delle cinque sorelle di mio papà Mario (aveva anche due fratelli maschi - in totale erano in otto), ad accorgersi che da un occhio sembrava che non ci vedessi bene e, guardando a fondo, si accorse che nell’occhio sinistro vi era una piccola macchia bianca.
La disperazione fu generale: mio papà chiamò subito il suo amico Claudino, abitante nella corte vicina, il quale aveva una macchina per il servizio pubblico, i taxi di allora, e di corsa mi portarono a Mantova in piazza 80° Fanteria per una visita presso l’ambulatorio privato del professor Luigi Marucci, primario del reparto di Oculistica dell’ospedale cittadino “Carlo Poma”. Era la vigilia di Natale e il professor Marucci stava scendendo dalle scale del suo appartamento con le valigie in mano poiché stava andando in ferie in montagna con la famiglia.

Accettò di farmi una visita sommaria, riservandosi di farne una più accurata al suo ritorno dopo l’Epifania.
Il responso finale gettò nello sconforto i miei genitori: quella macchiolina bianca era una cataratta congenita, probabilmente ereditaria (mia nonna materna Caterina morirà una decina d’anni dopo completamente cieca per cataratte comparse però in tarda età). Mia zia Alice (che assieme a zia Irma è l’unica Cartapati ancora vivente) mi ripete anche oggi che è convinta che la cataratta sia stata conseguenza delle medicine somministratemi per le broncopolmoniti, in particolare del “Lauromicil” (probabilmente si trattava della Lauromicina). Per il momento il professor Marucci non riteneva opportuna un’operazione poiché la cataratta doveva, a suo dire, ‘maturare’. Così l’operazione sia per tentare di asportare la cataratta che per correggere lo strabismo, che nel frattempo ne era derivato, fu fatta quando avevo ormai undici anni: lo strabismo fu attenuato, ma nessun effetto si ebbe sulla macchia bianca che mi porto tuttora e che non mi permette di veder nulla più che la luce e le sagome delle cose e delle persone vicine (per mia fortuna l’occhio destro ci vede ancora abbastanza bene, nonostante il forte utilizzo che ne faccio per il mio hobby preferito, la lettura).

Dopo quel responso medico, la disperazione dei miei genitori e dei miei numerosi parenti non accennò a diminuire. Circolavano già a quel tempo le voci sull’esistenza a Pellaloco, frazione di Roverbella distante una ventina di chilometri dal mio paese, di un prete che ‘faceva miracoli’. E così decisero di tentare anche quella ‘strada’, andando a Pellaloco. Presumo fosse il mese di maggio, il mese della festa di Santa Rita; mi caricarono su un biroccio trainato da cavallo, l’unico mezzo di trasporto che possedeva allora la mia famiglia (utilizzato soprattutto per i lavori nei campi) e mi portarono da quel prete che solo recentemente ho scoperto essere don Rodolfo Ridolfi.

Ovviamente non ho memoria personale di quell’episodio: mi raccontarono che ero stato presentato brevemente al prete taumaturgo, poi mi ricaricarono sul biroccio e riprendemmo la strada di casa. Teneva le redini, come sempre, mio nonno Primo e il viaggio fu tranquillo fino in prossimità della corte. In seguito il cavallo, improvvisamente e senza apparente ragione, si imbizzarrì. Ci volle tutta la pazienza e l’esperienza del nonno per farlo ritornare alla ragione e imboccare la strada della corte e ritornare tranquillo nella sua stalletta.

Con la religiosità semplice e tipica della gente di campagna diventò quello il miracolo di quella giornata: eravamo tornati a casa sani e salvi nonostante l’imbizzarrimento del cavallo che tanta paura aveva procurato ai miei genitori.
Rimane da dire che la macchia bianca nel mio occhio sinistro continuo a portarmela appresso: considero un miracolo il poter continuare a leggere e scrivere, le cose che amo di più fare, utilizzando quell’occhio destro che finora non mi ha tradito.


Francesca e Luisa Cherubini

Melzo (MI)

Sono cresciuta nella Canonica di Pellaloco che è stata costruita da mio zio Rodolfo. Lì a Pellaloco ho anche ricevuto il sacramento della Prima Comunione), Lui si era fatto prete perché era guarito da un problema al ginocchio. Successivamente, nella Grande Guerra, era stato “Tenente dei Lupi di Toscana”. Aveva poi studiato con papa Montini, ma poi avevano preso strade diverse: uno quella per architettura e l’altro di Medicina. È stato mandato a Pellaloco perché il vescovo dell’epoca era invidioso dei suoi carismi.

In canonica con lui viveva la “Gegia”, sua madre, che aveva preso con sé in casa i figli della sorella scomparsa in giovane età cioè Emma e Francesco (mio nonno che successivamente si è trasferito a Milano). Quest’ultimo aveva sposato Giuseppina che aveva una sorella di nome Luigina (entrambe si occupavano di don Rodolfo: la prima come segretaria parrocchiale, la seconda dirigeva invece le donne di servizio). Mio nonno e Giuseppina avevano avuto due figli: Ginetto (che ha sposato mia mamma Noemi da cui siamo nate mia sorella Luisa ed io) e Renato (che aveva sposato Antonietta da cui sono nate Giuseppina e Paola tutte e tre ancora viventi a Milano). Mio zio Renato era amico di Rossetti.

Da piccola, mi vestivo da chierichetta, salivo spesso sull’altare e aspettavo con ansia che mio zio celebrasse la Messa. Lui faceva tante cose, ma sempre tramite Santa Rita. Mia sorella Luisa è nata il 22 maggio del 1946, nel giorno della sua festa. Ha battezzato tante persone e ne ha guarite tante altre. La Chiesa di Pellaloco era piena di ex voto.

Era un bell’uomo. Gli piaceva la trippa, soprattutto se cucinata da mia nonna Noemi. Mangiava di tutto, ma soprattutto cibi bollenti. Dopo la Messa beveva il brodo con un po’ di vino.
In tempo di guerra volevano portarlo via da Pellaloco perché aveva fatto sì che tutti cambiassero orientamento politico. I parrocchiani gli avevano dato tutte le tessere del partito comunista e avevano fatto un grande falò per bruciarle. Quando gli ecclesiastici sono venuti a prenderlo, i parrocchiani hanno preso in mano i forconi dicendo: “O voi andate via o inforchiamo voi e la macchina”.

Nel 1948 aveva un’ulcera perforata che è stata evidenziata a Piacenza: lì infatti aveva fatto le lastre e aveva guarito il papà del radiologo. È stato operato alla Clinica San Clemente di Mantova. In seguito si è recato per la convalescenza a Gardone Riviera e lì ha guarito una bambina sordomuta che, ad un certo punto, si era girata verso la mamma dicendo: “Mi piace questo prete”.

Gli era stato proposto di diventare Vescovo di Bari, ma lui non voleva perché sarebbe stato lontano dai suoi parenti.
C’erano moltissime persone al suo funerale.
Era professore di Teologia. Era un Monsignore e un Abate Mitriato: a Pellaloco c’erano dei frati e il nuovo parroco acquisiva sempre questa carica.

E Precettore di casa Savoia a Torino.

Il testamento era stato cambiato totalmente: a noi doveva rimanere la Fabbrica di Confezioni, ma non ci è rimasto nulla.
Ha aiutato ad entrare in Seminario un sacerdote della Valtellina, don Rocco.
A Castiglione delle Stiviere ha fondato la “Casa delle Giovani Madri” per le ragazze madri.

L’ulcera si è poi trasformata in tumore allo stomaco e prima di morire di questo male, ha convertito il primario e il figlio del primario della clinica.
Aveva anche la psoriasi e spesso gli veniva il fuoco di Sant’Antonio.
La contessa Fenaroli aveva avviato una causa di beatificazione per don Rodolfo che però non è stata portata avanti per imprevisti familiari.

Quando don Rodolfo è arrivato a Pellaloco c’erano alcune tombe sia all’interno della chiesa che all’esterno: don Rodolfo ha preferito che fossero spostate nel cimitero. Non voleva che le tombe fossero in chiesa.
Io sono del ’48 e avevo 13 anni quando è morto don Rodolfo. Mio zio e Padre Pio si vedevano spesso a Pellaloco.

So che mio zio è apparso dopo la morte a quello che era il suo confessore a Villafranca: per strada si sono incontrati e il frate gli ha chiesto dove si stesse recando. Don Rodolfo ha risposto: “Vado molto lontano”.


Marta Arcanà

Milano

Nel gennaio 2012 è iniziata ‘l’avventura’ con don Rodolfo Ridolfi. Circa un mese prima, infatti, in occasione della morte del mio giovane cugino Jacopo le mie zie Cristina, Chiara, Anna, e mia mamma Mariapia si recarono a Pellaloco sulla tomba di questo sacerdote (che, in vita, aveva aiutato e consigliato più volte mio nonno) per chiedere la grazia di portare in Paradiso questo ragazzo morto in circostanze drammatiche. Mia madre e le mie zie lasciarono sulla tomba, vicino ad altre foto, anche la sua fotografia. Quando tornammo insieme, nell’aprile, la foto di questo giovane ragazzo era stata spostata e collocata su una piccola bacheca di legno vicino agli ex voto di grazie ricevute; inoltre, posta a cavallo della foto, vi era una targhetta di carta color ruggine con le tre iniziali dorate PGR (per grazia ricevuta). Un vero e proprio miracolo perché nessuno sapeva chi fosse tanto da poter affiggere la sua foto in bacheca. Leggemmo questo messaggio come conferma che la preghiera elevata al cielo dalle zie e dalla mamma qualche mese prima, era stata esaudita da Dio per il tramite di don Rodolfo.

Don Rodolfo aveva introdotto a Pellaloco la festa di Santa Rita, santa a cui era legatissimo da quando, dopo un tumore al polmone, era guarito per sua intercessione.
Quindi, come ogni 22 di maggio da allora, nel maggio 2012 ci recammo nuovamente a Pellaloco per la festa della ‘Santa degli Impossibili’. Lì chiesi a Santa Rita durante l’invocazione speciale del mezzogiorno, la grazia di capire se uno dei miei precedenti fidanzati, Francesco, fosse la persona giusta per intraprendere al meglio il ‘cammino’ della mia vocazione. Trovai risposta qualche mese dopo. Quell’estate infatti incontrai Giorgio, a Gallipoli, il suo paese d’origine. Prima di conoscerlo, iniziai a vedere molto spesso il numero 22 (associato a Santa Rita) e anche dopo il nostro primo incontro, mi capitò molto frequentemente la stessa cosa: sua nonna, Rita, era molto devota alla Santa e tutti i segni erano inequivocabili.

Ma con Giorgio non fu sempre facile e capì solo anni dopo, nel 2017, che non era la persona destinata a stare al mio fianco; piuttosto, eravamo stati entrambi destinati a compiere solo un ‘pezzetto’ di cammino insieme. Tornando al 2012, Il 3 giugno feci un sogno. Dovevo trasportare un dente caduto della mia defunta nonna Sarina e per trasportarlo più in fretta mi diede un passaggio in auto mia zia Rina. Sapevo che di solito i denti nei sogni sono sinonimo di problemi. La mattina mi svegliai senza capirne il significato e mi recai a Brescia, all’università, per sostenere un esame. 

Alle ore 14.00, mentre mi trovavo in stazione di ritorno per Milano, la drammatica notizia telefonica: mio papà aveva ritirato gli esiti di una lastra ai polmoni che rivelavano la presenza di una macchia da 8 centimetri di diametro. Negli ultimi mesi egli aveva perso 5 chili di peso e si era quindi convinto a fare degli accertamenti. Dopo aver saputo il fatto, ho subito pensato al peggio e lì in stazione stavo molto male, non sapevo cosa fare, ero completamente sola e spaesata. Una suora di nome Esterina mi venne incontro e dopo aver discorso qualche tempo con me, decise di fare tutto il viaggio di ritorno al mio fianco promettendomi che al rientro avrebbe fatto pregare tutte le suore del convento per mio padre. Fu così che capii il significato del sogno della notte precedente: il dente era il fardello pesante che avrei dovuto portare nel viaggio da Brescia a Milano e il nome della zia rimandava a quello della pia religiosa che mi avrebbe aiutato a sostenerlo. Dal 12 giugno poi è iniziato a comparire spesso il numero 34 e qualcosa mi disse che da quel momento in poi quel numero sarebbe stato associato a don Rodolfo. Il 13 giugno mia madre ed io accompagnammo mio padre a fare una visita dal chirurgo che, nel caso in cui la macchia si rimpicciolisse, avrebbe operato mio papà. Quel giorno il chirurgo pronunciò una frase che risentimmo anche il giorno seguente dall’oncologa che doveva prescrivere le varie sedute di chemioterapia. La frase era: “Dobbiamo dare un nome e un cognome a questa cosa”. Le medesime parole furono pronunciate una terza volta dalla dottoressa Righi il 28 giugno. Mio padre è poi guarito dal tumore, successivamente diagnosticato come tale e, Giorgio, appena venuto a conoscenza della sofferenza che mi aveva nuovamente colpito non mi lasciò più sola. La guarigione di mio padre poi è stata un vero e proprio miracolo e rendo gloria a Dio, alla Santa Vergine Maria, a San Giuseppe e Santa Rita e a don Rodolfo.

Potrei andare ancora avanti a raccontare dei miei sogni, come quello su Santa Rita scrivente, nel mio cortile, che mi sorride oppure quello di Santa Rita che mi dona un paio di scarpe comode perché quelle che portavo mi stavano ostacolando nel cammino. E, infine, quello di San Luigi Gonzaga che con una lunga candela in mano mi chiedeva di continuare a pregare. Tutto questo potrà sembrare follia o suggestione, ma per me è stata vicinanza, presenza, sostegno, conferma che la religione non è solo ciò che si racconta. È qui, ogni giorno, per tutti, ma solo per chi vuole realmente vedere. «Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono».


Nessun commento: